L’eticità come pratica ‘normale’ in un’impresa speciale Intervista a Marco Bartoletti,
BB Holding 

Calenzano è un comune della città metropolitana di Firenze, una cittadina come tante altre per molti aspetti se non fosse per un particolare che la rende preziosa. L’impresa BB s.p.a è infatti un fiore all’occhiello del territorio, un’azienda unica. E’ Marco Bartoletti, proprietario della BB Holding, gruppo di 7 aziende leader mondiali nella produzione di accessori di lusso per la moda con un fatturato da 40 milioni di euro e assunzioni in costante crescita, ad introdurmi in questa interessante realtà. Parliamo prima di tutto di un’azienda che genera sì valore ma diffonde anche e soprattutto valori “perché il suo fine non è soltanto quello di produrre ricchezza: ma c’è anche la dimensione sociale”. In che modo? Delle 250 persone che ci lavorano, infatti, circa il 30% vive una situazione di difficoltà/disagio (disabilità certificate, fisiche o psichiche, ma anche disagi sociali e problematicità varie). Marco spiega così il percorso che lo ha gradualmente portato a tale visione: “Non è che inizi a fare una cosa del genere solo quando sei toccato personalmente da un lutto. Ho imparato dalla mia famiglia di origine i valori della sofferenza come difficoltà a tirare avanti. Noi come impresa di fronte alla sofferenza non ci siamo voltati, dimenticando chi soffre, ma li abbiamo inclusi”. Colpisce la naturalezza delle parole, nutrite dalla convinzione che come la disabilità esiste nella vita quotidiana, allo stesso modo essa debba riflettersi nei contesti lavorativi: “L’impresa non deve escludere nessuno. E’ assolutamente falso che il business sia fatto da persone sane. La questione è individuare attività che ciascuno/a possa fare”. Provocatoria e diretta, invece, la risposta alla mia domanda su che cosa lo abbia stimolato a fare quella scelta: “cosa mi dovrebbe stimolare a non farla?”, ribatte senza esitazione Bartoletti. L’approccio di Marco parte da una critica decisa all’idea che esista un soggetto perfetto in un mare di imperfezione. Una critica, la sua, alla cultura della mancanza che permea la società e anche il mondo economico. L’esempio più calzante è quello del colloquio di lavoro, dove la persona viene esaminata in base ad un form precostituito che misura e decreta la presunta idoneità del/la candidato/a. Il risultato, nella maggior parte dei casi, è che la persona ne esce letteralmente distrutta. “Non si dice”, denuncia Marco, “parlami dei valori e interessi che hai (così che io ne possa fare tesoro); piuttosto, voglio scovare i punti deboli, le mancanze per sfruttarli a mio vantaggio. 

La malattia è vista come se tu non fossi più performante e, anzi, si sottolinea la tua problematicità e il danno che con essa arrechi all’azienda. Ad esempio, se dici ‘domani ho la chemio’, l’altro ti risponde ‘Ma come, proprio domani che c’è quella scadenza importante? Non è possibile rimandare la chemio?’. Allora è normale che la persona se ne vada nonostante ci siano le tutele legali. Io non chiedo di essere in buona salute, ma di dare il massimo sul lavoro, di essere creativi, di far parte di una squadra vincente”. Sono inoltre proprio le persone in difficoltà che spesso serbano sorprese incredibili. Un esempio sta nelle origini stesse dell’azienda: Bartoletti racconta di aver iniziato nel 2000 con 2 dipendenti, uno ‘normale’ e l’altro con dei problemi. Il secondo continua oggi a essere parte della squadra, con una sorprendente diminuzione delle problematiche che aveva. L’inclusione della disabilità o di alcuni stati penalizzanti (oltre ai malati, infatti, ci sono uomini e donne che vengono da altri paesi, ultrasessantenni) avviene in modo naturale, come all’interno di una famiglia che di fronte ad una difficoltà si stringe attorno alla persona malata e se ne prende cura, senza gettarla via quasi fosse un rifiuto. Nel momento in cui questa tendenza si è resa palese, Marco ha avviato una profonda analisi interna all’organizzazione, assalito dal dubbio e dal timore di stare trasformando l’azienda in una sorta di ospedale. Ma il fatto che le maggiori criticità le incontrasse con i cosiddetti normali lo ha rassicurato sulla direzione intrapresa. Dopo tutto per lui si tratta di restituire dignità attraverso il lavoro, il senso di essere utili, di essere persone, di sorridere di nuovo perché “spesso la dignità che si perde con la fine di una esperienza lavorativa è maggiore di quella che si perde con la malattia e per questo cerchiamo proprio di restituire speranza attraverso una nuova possibilità professionale che diventa per loro un miracolo quotidiano. Il mio dovere non può e non deve essere solo quello di dare lo stipendio, ma di rendere felici le persone che lavorano da me”. Quella che è iniziata come un’intuizione si è poi trasformata in una vera e propria filosofia. Marco, in particolare, ha scoperto che chi ha difficoltà fisiche investe sul lavoro più energie e mostra più attaccamento alla squadra. Se il lavoro da una parte è terapeutico, aiuta ad affrontare e a volte superare i problemi di mente e corpo, dall’altra porta valore all’azienda, cosa molto apprezzata da chi si definisce un imprenditore orientato al profitto e non un benefattore: “Non è una questione di buonismo, ma di dare dignità; una volta trovata la modalità di impiego adeguata al singolo caso, vengono trattati come gli altri, e questo porta vantaggi perché i cosiddetti malati si impegnano in genere di più dei sani”. Inoltre, la sensibilità unica che i malati trasferiscono sul lavoro si combina perfettamente con l’essenza di un’azienda che produce oggetti unici per i più importanti marchi del lusso a livello mondiale. L’azienda assiste il cliente dal design alla progettazione e realizzazione del prototipo o della creazione del pezzo unico di pregio, fino all’industrializzazione del prodotto finito su larga scala: “a produrre un orologio, una borsa, una collana, un bracciale, un orecchino è un uomo o una donna che solitamente non trova lavoro neppure come spazzino/a ma che alla BB realizza i suoi sogni professionali. 

Quell’oggetto è cioè prodotto dalle competenze di persone che operano al di là delle loro condizioni fisiche, ma che condividono un sogno e lavorano per realizzarlo”. L’azienda di Bartoletti è in questo senso la dimostrazione che fare integrazione non significa essere una ONLUS o non è sinonimo di sofferenza di bilanci, bensì velocità, brillantezza, stile, saper fare: “Andare veloci non significa lasciare chi ha più difficoltà per strada, altrimenti si rischia di arrivare al traguardo soli, facendosi il vuoto intorno”. Se, dunque, a lavorare in BB è sempre e solo una persona prima che un “malato”, dall’altra a guidare l’azienda è allo stesso modo una persona prima ancora che un imprenditore, come ribadisce Bartoletti. Visto che “a fare la differenza sono le persone: nessuna evoluzione tecnologica potrà mai sostituire la passione e la competenza di chi ama il proprio lavoro”, l’impresa dovrà essere concepita come un elemento vivo che si plasma sulle esigenze e sulle caratteristiche di chi la fa giorno per giorno: è proprio in questo senso che la persona è al centro dell’impresa. Per fare in modo che quanto sopra si concretizzi nella quotidianità, Bartoletti mantiene la prerogativa esclusiva di condurre i colloqui con le persone in difficoltà, avendo lui solo, nel ruolo di Presidente, il potere di firma: “non si può infatti far aspettare una persona provata che è già in una situazione di angoscia. Se mi piace la assumo e faccio io i documenti seduta stante. Io di solito non leggo il cv, ma mi interessa cosa hai fatto. Di un ragazzo che insisteva sulle competenze acquisite, dicendo che sarebbe stato perfetto come magazziniere, ho scoperto che aveva la passione di dipingere. È un fenomeno nella pittura e adesso realizza cose fantastiche nel nostro reparto smaltatura.

.Altro esempio: ho assunto un ragazzo, Giovanni con gravi problemi fisici, abbiamo creato una piattaforma per il telelavoro attraverso la quale gestisce e ottimizza i percorsi dei nostri trasporti” In BB i ruoli non sono definitivi ma si modellano in corso d’opera. Mentre si lavora si scoprono delle caratteristiche che predispongono ad altro rispetto alla formazione di origine: “Vagando trovi il tuo posto. C’è allo stesso tempo una continua dinamica di ascolto e adattamento per cui “se fai la chemio la mattina, poi il pomeriggio se te la senti vieni, oppure stai a casa. Ci sono i tuoi colleghi che ti aiutano, basta creare comprensione all’interno dell’ambiente di lavoro sulle problematiche presenti. Ciò che facciamo è mettere insieme le esigenze di tutti. Ci sono tutor che seguono l’inserimento dei malati ma solo fino al raggiungimento di un certo livello di autonomia con l’obiettivo, a quel punto, di fare un passo indietro per evitare forme di dipendenza, sia quella nei confronti dei colleghi che dei genitori. E capita che alcuni di questi ragazzi/e diventino loro stessi/e dei tutor per altri, anche ‘normali’: “Per noi quando questo avviene è una grande vittoria. C’è stato un genitore che mi ha detto ‘da quando mio figlio è qui ho capito di cosa è capace’.” Si tratta di un approccio diverso alla malattia che coinvolge e influenza il malato ma anche chi lo circonda, ad ogni livello, con un grande potenziale in termini di creazione di un circuito virtuoso. Di ostacoli, ammette Marco, ce ne sono ancora molti, primo tra tutti la difficoltà a trovare malati da inserire in azienda. Si attiva spesso, ad esempio, una dinamica protettiva da parte delle famiglie, dove è il genitore ad affermare ‘mio figlio non ce la fa’. A questo si deve poi sommare gli ostacoli burocratici: “Ho assunto una ragazza in sedia a rotelle ma poi i medici hanno detto che era inabile al lavoro e che dunque stavo commettendo una irregolarità. Ma lei voleva lavorare ed era in grado di farlo. A quel punto ho usato le mie relazioni, non certo per favorire me o i miei figli, ma per far giustizia e permettere a quella ragazza di lavorare, alla fine ho raggiunto il mio intento trovando una fessura, una nicchia nella legge, che adesso utilizzo per molti casi”. Occorre in questo senso formare in primo luogo le istituzioni. Nell’intento di coinvolgere e rendere parte attiva le persone con disabilità, Bartoletti racconta di aver spesso trovato l’opposizione anche da parte di alcune associazioni le quali sostengono che non ci siano al loro interno persone desiderose di lavorare. Per Bartoletti il nodo centrale, ancora non pienamente compreso, è che attraverso il lavoro le persone malate possono inserirsi nella società e avere una possibilità di vita con percorsi di inclusione e autonomia e non di assistenzialismo. Se di difficoltà esterne ancora ne esistono molte, in azienda si è creato un clima dove “Tu mi aiuti perché sono in difficoltà e domani ricambierò. Non si costruiscono confini ma condivisione e una sana solidarietà. Se una persona ha bisogno di molti giorni noi troviamo il modo di sopperire perché c’è qualcosa di più importante, che è il valore della vita e che tu stia tranquillo rispetto al tuo lavoro, anche se sei impossibilitato a venire. E’ un processo di formazione continuo, di comunicazione.

Mi piace vedere l’azienda come un paese vivo, dove ciascuno ha un compito e dà il proprio contributo serenamente e in modo solidale. Il lavoro non deve essere una corsa a ostacoli. Fare questo in un mondo, quello del lusso, dove il bello è spesso associato alla superficialità è difficile. Per circa 10 anni non siamo stati capiti, ma ora siamo un modello, un valore che si spende, un sistema che genera bene. Siamo gli unici in Italia a raccogliere così tanti marchi prestigiosi del lusso e ci scelgono per la nostra specificità.” Nell’ottica di creare un circolo virtuoso in grado di espandersi a vari livelli, anche i clienti diventano parte integrante del meccanismo, anche se, come ammette Marco, il percorso da fare è ancora lungo: “vendiamo oggetti di lusso costruiti nella sofferenza per cui il messaggio è chiaro ‘voi non dovete alimentare la sofferenza ma eliminarla’. Hanno capito l’approccio e hanno capito che questo non intacca i bilanci, ma richiede uno sforzo di umanizzazione”. ”. Bartoletti si considera una sorta di virus verso le aziende che non hanno lo stesso approccio. Quando chiedo perché ancora così pochi imprenditori agiscano come lui, Marco risponde che la gerarchia valoriale dominante prevede, in ordine, fare i soldi, sistemare i figli affinché facciano i soldi, occuparsi della politica, l’impresa e all’ultimo posto l’etica. Bartoletti sostiene invece di aver ribaltato questa piramide di valori e di aver iniziato dalla base, ovvero dalla costruzione di solide fondamenta, dove la solidità non è data soltanto dal fatto di essere i migliori nel settore, ma anche dal considerare la persona come valore principale. BB è in questo senso il luogo dove provocatoriamente il vecchio torna innovativo, l’idea di famiglia, di un sistema dove i nonni parlano ai nipoti trasferendo esperienze e visioni: per Marco è necessario proporre tale approccio per superare ciò che lui definisce il fallimento della sua generazione, quello cioè di non essere riusciti a parlare con i giovani. Che la BB sia una formula vincente e sostenibile, Bartoletti ne è fermamente convinto: “Io sono la prova vivente che fare impresa in modo etico funziona. Si deve dire a chi vuole fare impresa che per farlo non c’è soltanto bisogno di formazione specifica, non c’è bisogno di prendere le scorciatoie perché non ti portano a nulla. Se vuoi i soldi ad ogni costo, non arriverai a quel fine. Noi non siamo un modello, ma un’esperienza. Abbiamo una buona origine, un percorso sostenibile e abbiamo generato molta ricchezza facendo cose belle, una ricchezza che dobbiamo sopportare, non solo in termini di redistribuzione ma di offrire un contributo reale per creare valore. Dobbiamo cioè dimostrare che la ricchezza è il risultato di un percorso buono che ha creato posti di lavoro e offerto opportunità.” E che non sia una questione di opere buone, beneficienza lo conferma “l’adozione” della onlus Lettera 8 di Figline che si è tradotta in un percorso di formazione rivolto ai ragazzi dell’associazione, tutti disabili, per imparare a gestire alcune fasi del lavoro svolto da BB per i marchi del lusso, aspetti che sono adesso in mano loro e che rappresentano, quindi, una vera e propria opportunità in termini di acquisizione di nuove competenze e di autonomia economica. Per Bartoletti l’impresa italiana può, esattamente nel senso indicato sopra, fare da apripista ad un’altra idea di azienda, dove il profitto si coniuga all’aspetto sociale senza pietismi, continuando a fare business con grandi soddisfazioni di fatturato: “Fare impresa essendo etici non soltanto è possibile ma è un nostro dovere morale. E paga”.


La dimensione etica va dunque ben oltre la logica delle certificazioni che rappresentano semmai una limitazione, poiché la proceduralizzazione finisce per allontanare dalle persone. La dimensione etica si colloca in quella quotidianità semplice che rifugge dalla sovraesposizione mediatica e dalla spettacolarizzazione della malattia: BB non è e non vuole essere uno zoo delle sofferenze, ma un’esperienza che può suggerire un’idea alternativa di soggetto e di società, dove la vulnerabilità, la dipendenza e la cura tornano ad essere dimensioni primarie e riconosciute dell’esperienza umana, in grado di tenere insieme e far evolvere la dimensione economica e quella sociale perché, come afferma Marco, “O decidiamo di rendere solidale un sistema lavorativo che attualmente esclude i soggetti proprio quando dovrebbero essere maggiormente inclusi, o rischiamo di distruggere un’intera società”.

Alessia Belli